La lettera, straziante e commovente, di una donna che racconta cosa ha vissuto: «Sono il numero 425.
Nel caos di medici e infermieri si avvicina il dottore che mi dice: “È Coronavirus”.
Scoppio a piangere: “Ho tre figli piccoli che hanno perso il padre – gli dico -, salvatemi”».
Sono una donna di 38 anni, vedova da quattro e con tre bimbi piccoli da crescere.
Si sente parlare di Coronavirus, il Covid-19 che ha colpito la Cina.
«Troppo lontana da qui per contagiarci», mi ripeto cercando di mantenere un’apparente positività.
Ma un po’ di pensieri e paura iniziano a farsi largo dentro di me.
I tg annunciano la notizia del primo contagio in Italia, a Codogno.
Meno serena di prima continuo egoisticamente a ragionare sulla fortuna della distanza che separa Bergamo da Codogno.
Poi la notizia dei primi contagi di Alzano Lombardo in provincia di Bergamo, dietro casa mia.
Il 26 febbraio mi sveglio con la febbre, erano quattro anni che non mi ammalavo.
Proprio ora! Chiamo il numero verde e vengo invitata ad allontanarmi subito dai miei figli.
Sono afona, non sento i sapori e gli odori, mi bruciano gli occhi, ho mal di testa e mi sento assente.
Ho la febbre da due settimane ma il medico dice che la saturazione dell’ossigeno nel sangue è buona e mi prescrive l’antibiotico.
È il 3 di marzo, non riesco a respirare correttamente, mi manca il fiato e chiamo il 112.
Mi trasportano a Ponte San Pietro, il mio primo girone dell’inferno.
Tutta la notte sdraiata sopra una barella, al freddo, parcheggiata in un corridoio in mezzo a gente ammalata come me.
Risuonano solo i colpi di tosse e le lamentele per la paura. Nessuno che si è curato di me, mi ha chiesto se avessi sete o dovessi andare in bagno.
Il personale non è preparato, non immaginavano un così grande afflusso di gente, non comprendono ancora cosa stia accadendo.
Vengo dimessa, debilitata da due settimane di febbre, una notte difficile e con i polsi doloranti per la flebo.
Prognosi di cinque giorni, mi dicono bronchite in corso.
Dopo un paio di giorni la febbre sale a 39.7. Il medico dice di aspettare che l’antibiotico faccia effetto ma ad ogni attacco di tosse entra meno aria, mi sembra di soffocare.
Un amico in visita, molto preoccupato, chiama il 112. Ho paura, non voglio tornare in ospedale ma non respiro, vomito, piango.
Entro al pronto soccorso dell’ospedale di Bergamo, qui sono un’eccellenza penso, mi guariranno.
Provati i parametri mi portano via dal Triage in tempo zero.
Flebo, ossigeno, prelievi, esame delle urine, emogas e Rx per concludere con il tampone. Sono il numero 425.
Nel caos di medici e infermieri si avvicina il dottore che mi dice: «È Coronavirus».
Scoppio a piangere: «Ho tre figli piccoli che hanno perso il padre – gli dico -, salvatemi».
È l’8 marzo e vengo ricoverata in Pneumologia. Ho una mascherina di ossigeno ma l’apporto d’aria che mi dà non è abbastanza.
Finisco nella Cpap, quel casco stile “Minions”. Mi dicono che ho gli alveoli pieni d’acqua e questa è l’unica soluzione che può salvarmi per ora.
Mi stringe al collo, mi sento strozzata, l’ansia mi fa salire la sensazione d’esser sepolta viva. Assumo Lexotan per rilassarmi.
Dentro il casco la sensazione è pazzesca. Un rumore continuo, una ventola nelle orecchie che introduce ossigeno da destra e scarica anidride carbonica a sinistra.
Non capisco cosa mi dicono e non posso nemmeno leggere il labiale perché sono tutti con le mascherine. Tv, telefonate, tutto inutile.
Sono sola con me stessa, le mie paure e i miei pensieri.
Sono giorni che non posso alzarmi dal letto, né per lavarmi né per scaricarmi.
Mi lavano loro e mi scarico in una padella.
Le siringhe per l’esame dell’Emogas arterioso sono rapide ma dolorose, l’eparina in pancia, i continui prelievi di sangue e l’ago delle flebo che continua a cadere.
Sopporto tutto, devo uscirne il prima possibile.
Non conto più i giorni. Ricoverano papà e anche mamma.
Il mio amico si prende in carico i miei figli. Nel frattempo arrivano continue notizie di decessi, parenti, amici, parenti degli amici e il pensiero si aggrappa all’ipotesi che il virus sia più clemente nei riguardi delle donne e dei giovani.
Ho 38 anni, mi ripeto, sono giovane. Prego Dio, lo faccio intensamente, ho paura ma non posso mollare.
Il personale dell’ospedale è gente pazzesca, corrono avanti e indietro, fanno una fatica immensa e ci fanno sentire come una grande famiglia.
Sono una donna positiva e loro mi danno un motivo per continuare ad esserlo.
Finalmente arriva il mio rianimatore.
Lui è uno tosto, mi distrae, mi tranquillizza, mi fa sorridere.
«Facciamo un patto?» mi chiede.